YOGA E COMPETIZIONE NELL'INDIA ANTICA


 

Nell’antica India, la competizione era sacra ed ogni occasione era buona per organizzare gare e tornei. I vincitori oltre ad essere onorati come eroi o semidei, ricevevano premi in denaro (monete d’oro, da cui, secondo gli storici indiani, l’abitudine di premiare con medaglie d’oro i vincitori delle gare sportive), cavalli, vacche, appezzamenti di terreno e, addirittura, mogli. Chiunque avesse raggiunto posizioni di prestigio nella società, compresi yogin e maestri spirituali, poteva essere sfidato in ogni momento, e pena il disonore, era obbligato a mettersi in gioco, dando prova, in pubblico, sia delle proprie abilità fisiche, sia delle qualità che all’epoca si riconoscevano in uno yogin: lealtà, coraggio, saggezza, intelligenza, erudizione ed arte oratoria.

Gli “atleti-yogin” non si esibivano solo in sequenze acrobatiche o posizioni complesse, ma, al pari dei lottatori dell’epoca, si affrontavano in competizioni di Kho-Kho e Kabbadi. Kho-Kho e Kabbadi sono due antichissimi sport “di contatto”, assai popolari nell’India odierna[1]. In entrambi i giochi ci sono due squadre - composte da dodici giocatori nel caso del Kho-Kho, da sette nel caso del Kadabbi - che cercano, a turno, di invadere il campo difeso dall’altra squadra e di eliminare tutti i giocatori avversari toccandoli con la mano o, nel caso del Kabaddi, atterrandoli e schienandoli come si fa nella lotta libera.

Si tratta, a prima vista, di rappresentazioni di battaglia o di un addestramento allo scontro fisico e, se è vero che ogni sport a squadre, dal Calcio al Volley, dal Basket al Rugby, è una metafora della guerra (ci si difende, si attacca, si sfondano le linee nemiche…), nel caso del Kho-Kho e del Kadabbi il fine dichiarato non è far Goal, schiacciare la palla per terra, infilarla in un canestro o spingerla oltre le linee avversarie, ma quello di eliminare tutti i giocatori avversari con il colpo della mano o una presa di lotta. In più, almeno del Kabbadi, i concorrenti, in fase di attacco, dovevano – devono - mostrare la propria capacità mantenere a lungo l’apnea alta evitando di inspirare fino a quando non facevano ritorno nel proprio campo, a riprova della validità del loro “addestramento yogico”



Fase di un incontro di Kadabbi. Fonte: https://www.ilsecoloxix.it/sport/2012/12/04/news/kabaddi-lo-sport-che-ti-toglie-il-respiro-1.32637159


Il combattimento e la competizione, intesa come sublimazione e rappresentazione della battaglia, sono da sempre, parte integrante della cultura indiana. Gli indiani sono tendenzialmente guerrieri e la ginnastica –in sanscrito vyāyāma - intesa come metodo per sviluppare forza, agilità, scioltezza e concentrazione, ricopre, al pari dello yoga, un ruolo importantissimo nel loro sistema educativo.



Gara di Lotta nell'India antica. Scultura proveniente da Bhatkal, Uttara Kannada (karnataka State). Fonte: http://www.kamat.com/database/books/kareducation/physical_education.htm


La passione indiana per la ginnastica e per gli sport emerge dalle fonti più disparate: ad esempio, secondo il Kāmasūtra di Vātsyāyana, un manuale erotico risalente, probabilmente, al II secolo d.C. una giovane donna indiana di buona famiglia[2], dovrebbe praticare le seguenti discipline:

-         Arte della Danza.

-         Arte della Spada.

-         Arte del Bastone lungo.

-         Arte del Bastone corto.

-         Arte del Tiro con l’Arco.



Illustrazione del Kāmasūtra di Vātsyāyana. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/K%C4%81ma_S%C5%ABtra#/media/File:Kamas1.jpg  


Nell’India tradizionale – sport e arti marziali erano arti sacre, perché venivano considerate strumenti per la realizzazione dei quattro scopi dell’esistenza umana, i puruṣārtha[3].

Per gli indiani l’essere umano realizzato - detto in sanscrito pūrṇa puruṣa o “persona intera” - è colui che realizza tutti e quattro gli scopi dell’esistenza. Nell’india tradizionale non esiste alcuna differenza qualitativa tra lo studio delle scritture, la ginnastica, o le pratiche meditative: si tratta di strumenti con eguale dignità che servono a conseguire gli scopi dell’esistenza.

Come abbiamo detto i quattro scopi dell’esistenza sono legati a quattro diverse fasi della vita, e sono sottoposti alle regole, per noi incomprensibili, del gioco degli dei, la lilā, per cui il successo o l’insuccesso –sia nella vita, sia nello sport sia in una battaglia   – dipendono dal karma accumulato nelle vite precedenti e da quello che possiamo definire il karma della comunità, del paese e della nazione in cui vivo.

Il karma, per usare parole semplici, non è altro che l’effetto delle azioni che si sono compiute, singolarmente o collettivamente, nelle vite precedenti, un effetto che, secondo gli insegnamenti tradizionali, non è assolutamente evitabile. Ciò porta ad un concetto della competizione e dell’agonismo affatto diverso da ciò che ci potremmo aspettare.

La vittoria o la sconfitta, infatti, dipendono dagli effetti delle azioni compiute nel passato e questo significare che il voler vincere a tutti i costi, imbrogliando per esempio, diviene un atto “contro natura”; questo non significa ovviamente rinunciare a gareggiare o a lottare.

Nella filosofia indiana esiste infatti un altro principio basilare detto svadharma traducibile con “proprio dharma”, o semplicemente “dovere”, secondo il quale l’essere umano ha il compito di svelare la propria natura e di sviluppare i propri talenti e le proprie capacità. In altre parole l’essere umano ha “il dovere” di realizzare completamente se stesso: se per natura è un guerriero, dovrà tendere ad essere un guerriero perfetto, se è una danzatrice dovrà tendere ad essere una danzatrice perfetta, e così per il mercante, il contadino, l’oste e, ovviamente, l’atleta.

 

 Śiva e la sua sposa Pārvatī giocano a dadi. Fonte: https://www.drikpanchang.com/diwali/muhurat/diwali-dyuta-krida-time.html


Il successo, l’insuccesso e la loro entità, dipendono dal karma, ma il raggiungimento degli scopi della vita dipendono invece dalla misura in cui si realizza la propria natura, lo svadharma, in altre parole “colui che realizza la propria natura, resta se stesso sia nella vittoria che nella sconfitta”.

Immaginiamo che l’essere umano sia il capitano di un veliero e il karma l’oceano:

-         Se c’è tempesta non vi sarà nessuna possibilità di fermare l’onda o di mutare la direzione del vento, ma con l’abilità e la conoscenza il capitano può condurre ugualmente la nave in porto.

-         Se invece il capitano non ha abilità né conoscenza – o addirittura non sa di essere un capitano - anche col mare calmo il veliero rischia di colare a picco.

Si tratta di un concetto semplice ma importantissimo che si riflette in due aspetti fondamentali della cultura indiana: la leggerezza e l’eleganza dell’arte classica – danza, scultura, musica, canto – e l’importanza attribuita alla competizione e allo sport.

La leggerezza nasce dalla consapevolezza dell’ineluttabilità del karma: non posso impedire all’onda di alzarsi, ma posso tentare di cavalcarla, con la grazia e la leggerezza del danzatore.

La passione per lo sport nasce invece dalla necessità di conoscere la propria natura: se non mi metto in gioco, confrontandomi con gli altri, come potrò prendere coscienza dei miei limiti e delle mie capacità? Che possibilità avrebbe di portare una nave in porto, il capitano che non ha mai alzato una vela o non ha mai governato un timone?



[2] Kāmasūtra di Vātsyāyana, Libro I, capitolo 3.

[3] La parola puruṣārtha significa letteralmente “realizzazioni dell’esistenza”, ed indica quattro obbiettivi da perseguire in quattro diversi periodi della vita:

1)    Dharma, ovvero la conoscenza della legge universale, attraverso lo studio delle scritture, delle arti, dello sport. Dharma corrisponde alla condizione dello “Studente” e al periodo della giovinezza e dell’adolescenza.

2)     Artha, ovvero l’ottenimento di beni materiali - case, bestiame e soldi – per provvedere alla sopravvivenza della propria famiglia (moglie, figli, genitori, parenti poveri). Artha corrisponde alla condizione del “Capo famiglia” e all’età adulta.

3)    Kāma, ovvero la realizzazione dei piaceri – piacere del sesso, piacere del cibo, piacere del bere, piacere derivante dall’assistere a concerti, danze, spettacoli e manifestazioni sportive – che corrisponde al periodo della maturità.

4)    Mokṣa, ovvero la realizzazione dei beni spirituali (liberazione) che consiste nel ritirarsi dalle occupazioni mondane e nel liberarsi da ogni genere di vincolo sociale, familiare o sentimentale, per dedicarsi alla meditazione e alle pratiche di preparazione alla morte. Mokṣa corrisponde al periodo della vecchiaia.

 








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