LA COMPETIZIONE COME VIA DI CONOSCENZA
Il successo, per certi versi inaspettato, delle nostre Yoghiadi - con 325 partecipanti le Yoghiadi 2020 sono, di fatto, la più grande manifestazione di Yoga Sportivo mai organizzata in Italia - ha portato, sia noi, sia moltissimi esponenti del movimento yogico italiano, a riflettere sul rapporto tra Yoga e competizione.
In attesa di riprendere il nostro ciclo di interviste sullo Yoga Sportivo - sul nostro canale https://www.youtube.com/channel/UCt5F7iqkal864rXN_cEx1hQ potete ascoltare i contributi di Nunzio Lopizzo, responsabile nazionale del Settore Ginnastica Yoga CSEN, e dei maestri Luca Tancredi, Andrea Pagano, Terri Duan, Laura Nalin, Micaela Jorio, Lina Coppola, Luciano Baroni - vi proponiamo un articolo del Team di "Storia Segreta dello Yoga" sul valore della competizione nell'India antica.
I vostri commenti, giudizi, critiche saranno, ovviamente, graditissimi.
LA COMPETIZIONE COME VIA DI CONOSCENZA
Il sanscrito è
una lingua polisemantica per cui ogni parola, a seconda dell’ambito in cui
viene usata, può assumere significati diversi e, a volte, in contraddizione tra
loro.
La parola योग Yoga ad esempio, in astrologia indica una particolare
configurazione planetaria o uno strumento per misurare le distanze tra gli
astri; nell’arte militare è invece sia l’atto di equipaggiare un esercito prima
di una battaglia, sia un trucco, spesso magico, per ottenere un vantaggio
strategico.
Genericamente
la parola Yoga è “tutto ciò che implica la relazione tra due o più fenomeni,
oggetti o persone”, per cui la si usa con il significato di “team”, di
“squadra” e, soprattutto, di “opportunità”: un astro che entra in aspetto
positivo con un pianeta, un esercito che si arma prima di una battaglia, una
persona che si incontra per la prima volta sono tutte Yoga, “opportunità” che
gli dei, o la natura, ci concedono per conoscere il nostro svadharma e
per realizzare i quattro scopi dell’esistenza, i puruṣārtha.
Anche le parole derivanti da “Yoga” possono assumere, ovviamente, significati diversi: pratiyogitā (प्रतियोगिता), vuol dire “gara”, “incontro”, “competizione”, ma significa anche “cooperazione”, “collaborazione”, “mutua assistenza”. Allo stesso modo, in ambito sportivo, la parola pratiyogin (प्रतियोगिन्) indica sia l’avversario sia il compagno di squadra; ciò significa che se sono impegnato, ad esempio, in una gara di Kabaddi, i partecipanti di entrambe le squadre, per me, sono pratiyogin.
Il dizionario Monier Williams dà anche una interessante definizione
“filosofica” di pratiyogin:
“प्रतियोगिन् m.
pratiyogin, any object dependent upon another and not existing without it.”
Pratiyogin, è “ogni oggetto la cui esistenza dipende da un altro”,
quindi, durante una competizione - pratiyogitā
-l’esistenza mia e del mio avversario, sono interdipendenti: se lui non
esistesse come avversario non ci sarebbe gara e quindi perderei l’opportunità –
Yoga - di esprimere la mia
agilità, la mia forza o, nel caso di un “duello filosofico[1]”,
di portare alla luce le mie conoscenza e la mia abilità dialettica. La competizione
diviene, in questo modo, un reciproco riconoscimento dei limiti e delle
capacità individuali, un banco di prova necessario per chi voglia intraprendere
la via della conoscenza, in altre parole la competizione “è Yoga”.

La vittoria
di Adiśaṅkara (a destra) nel “duello filosofico” contro Maṇḍana Miśra (a
sinistra) e Ubhaya Bharati (al centro) in un bassorilievo medioevale. Fonte: https://www.esamskriti.com/e/Spirituality/Vedānta/Debate-between-Sankara-and-Mandana-Misra-1.aspx
Nell’antica India, la competizione era sacra ed ogni occasione era buona
per organizzare gare e tornei. I vincitori oltre ad essere onorati come eroi o
semidei, ricevevano premi in denaro (monete d’oro, da cui, secondo gli storici
indiani, l’abitudine di premiare con medaglie d’oro i vincitori delle gare
sportive), cavalli, vacche, appezzamenti di terreno e, addirittura, mogli.
Chiunque avesse raggiunto posizioni di prestigio nella società poteva essere
sfidato in ogni momento, e pena il disonore, era obbligato a mettersi in gioco,
dando prova, in pubblico, non solo delle proprie abilità fisiche, ma anche di
lealtà, coraggio, saggezza, intelligenza, erudizione ed arte oratoria.
Nella letteratura sanscrita e tamil abbondano i riferimenti a gare di ogni
genere[2],
le più seguite delle quali erano sicuramente le gare di arti marziali, ma erano
assai popolari anche i “duelli filosofici”, singolar tenzoni tra yogin, monaci e
maestri spirituali che si sfidavano, senza esclusione di colpi, per assicurarsi
posizioni di prestigio alla corte dei sovrani o nell’ambito delle varie scuole
di pensiero.
Re ed imperatori organizzavano regolari competizioni filosofiche e la
vittoria di uno o l’altro dei contendenti veniva sancita talvolta da un giudice
esterno, altre dagli allievi di entrambi, ma in alcuni casi si utilizzavano
strumenti di valutazione per noi incomprensibili, come , ad esempio “il
giudizio dei fiori”: ad ognuno dei contendenti veniva messa una ghirlanda di
fiori freschi al collo e il primo che, a causa del sudore e dell’aumentato
calore del corpo derivante dallo stress, li avesse fatti appassire sarebbe
stato dichiarato sconfitto[3].
Tutti i grandi yogin dell’antichità partecipavano alle gare filosofiche. Yājñavalkya[4], ad esempio, autore di molti testi vedici e padre nobile della dottrina conosciuta come Advaita Vedānta, viene ricordato per aver vinto una gara di filosofia organizzata da Janaka, re di Videha, uno dei personaggi del poema epico Rāmāyaṇa, divenuto in seguito suo discepolo. In premio Yājñavalkya ricevette delle vacche con monete d’oro legate alle corna.
Ma il campione assoluto di gare filosofiche è sicuramente Adiśaṅkara[5], il riformatore dell’Induismo. Nella sua breve vita – si dice sia morto a trentatré anni - percorse tutta l’India con un manipolo di discepoli, alla ricerca di maestri da sfidare in “onorevoli duelli filosofici”[6]. La sua sfida più famosa, studiata ancora oggi nelle scuole di filosofia indiana, fu quella contro Maṇḍana Miśra, uno dei maestri più celebri dell’epoca.
Immagine tradizionale di Adiśaṅkara. Fonte: https://www.amritapuri.org/40614/shankaracharya.aum
Si racconta che Śaṅkara, che ci viene descritto nelle biografie come una
persona impulsiva ed arrogante, si sia presentato senza preavviso a casa di Maṇḍana,
proprio mentre questi stava celebrando l’anniversario della morte di suo padre.
Maṇḍana inizialmente si infuriò, rifiutò la sfida e chiese ai suoi servi di
cacciare via l’importuno, ma, come abbiamo detto, non accettare una sfida
nell’India antica era un disonore per cui, dopo una serie di reciproci insulti
e provocazioni i due si sedettero davanti ai discepoli di entrambi per dare
inizio alla gara.
Decisero che l’incontro sarebbe stato arbitrato da Ubhaya Bharati, moglie
di Maṇḍana assai versata nella filosofia - era considerata incarnazione di
Sarasvatī, dea della musica e dell’eloquenza -
e che il perdente avrebbe sconfessato pubblicamente le proprie idee e
sarebbe diventato discepolo del vincitore. L’incontro durò molti giorni, ma
alla fine Maṇḍana riconobbe la superiorità dell’avversario e, accettando le
conseguenze della sconfitta, si disse pronto a seguirlo come monaco errante,
abbandonando la sua casa, le sue ricchezze e i privilegi che il suo ruolo
sociale gli assicurava. Prese allora la parola l’arbitro, Ubhaya Bharati che, a
sorpresa, invece di proclamare la vittoria del giovane yogin (presumibilmente
all’epoca del duello con Maṇḍana Śaṅkara non aveva ancora 30 anni) gli lanciò
una nuova sfida:
“Per essere proclamato vincitore devi sconfiggere
anche me” – Disse Bhairati – “giacché marito e moglie sono una cosa
sola” - e propose un duello a “colpi” di tecniche sessuali.
A noi l’idea di un duello erotico può sembrare stravagante e l’occhio
dell’occidentale potrebbe dipingere di malizia le parole della bella moglie di
Maṇḍana, ma nessuno, nell’occasione ebbe niente da ridire. Data l’inesperienza
di Śaṅkara nelle arti amatorie (era vergine e aveva fatto voto di castità) si
stabilì di concedergli un mese di tempo per prepararsi, quattro settimane
durante le quali fu “allenato” duramente dalle concubine di un nobile del
luogo, suo amico.
Qualcuno racconta invece che grazie ai poteri yogici, Śaṅkara abbia trasferito la sua coscienza nel corpo di un raja morto da poco, Amaruka, per poter accedere al suo gineceo e che, i discepoli, a pochi giorni dalla data dell’incontro, abbiano fatto irruzione nel palazzo per paura che i piaceri della carne gli avessero fatto perdere la coscienza di sé e della sua missione[7]. Comunque sia, nel giorno convenuto, Śaṅkara si presentò di nuovo alla casa di Maṇḍana. Non ci sono dettagli sull’andamento della gara, ma si può supporre che Bhairati abbia ritenuto soddisfacenti le conoscenze acquisite dal suo rivale, tanto è vero che Maṇḍana, assunto il nome di Suresvara, divenne uno dei più fedeli discepoli di Śaṅkara insieme a Hastamalaka, Padmapāda e Totakacarya[8].
La storia del doppio confronto - filosofico ed erotico -
vinto da Śaṅkara dimostra che il concetto di competizione, intesa sia come
metafora dell’esistenza terrena sia come “opportunità”, era tutt’altro che
alieno dal mondo dello Yoga, anzi ne era parte integrante Nella vicenda della
duplice sfida ci sono due punti che vale la pena sottolineare:
1) Śaṅkara è un saṃnyāsin, un monaco che ha fatto voto
di castità, Ubhaya Bharati lo sfida a mostrare le sue competenze nell’arte
amatoria e nessuno, né il marito, né i discepoli dei due yogin né i
commentatori dei secoli successivi, trova oltraggiosa la richiesta.
2) Śaṅkara per
allenarsi al confronto si dedica per un mese ad intense attività sessuali. Di
fatto quindi rompe i suoi voti e, seppur per un periodo limitato di tempo,
“sembra” abbandonare le pratiche spirituali per gettarsi anima e corpo nei
piaceri della carne e nessuno, né all’epoca né nei secoli che sono trascorsi
dalla sfida di Bharati si è mai sognato di esprimere giudizi negativi sul suo
comportamento[9].
È evidente che Śaṅkara non può esimersi dall’accettare la sfida e ha
l’obbligo, pena il disonore, di prepararsi alla competizione nella miglior maniera
possibile, anche a costo di rompere i voti religiosi, e questo per chi volesse
approfondire il rapporto tra Yoga e sport è sicuramente un ottimo spunto di
riflessione.
[1] Le gare di filosofia e di poesia erano
molto popolari nell’India antica.
[3] Fonti:
-
Madhava-Vidyaranya, Sankaradigvijaya.
-
Anantanandagiri,
Sankaravijaya.
-
Nilakantha,
Sankaramandarasaurabha.
[4] Yājñavalkya, considerato il fondatore dell’Advaita
Vedanta, è uno dei primi yogin ad essere citato nei Veda (di cui viene
riconosciuto come uno degli autori) A lui si devono la dottrina
dell’Impermanenza, poi ripresa dal Buddha, e il “Neti Neti”, (non questo, non
questo) ovvero la tecnica di autoanalisi tesa ad eliminare l’identificazione
dell’essere umano con il corpo fisico, la mente o le emozioni fino a realizzare
l’unità con il Sé supremo, tecnica diffusa in temi moderni da maestri come
Ramana Maharishi e Nisargadatta Maharaji. A lui sono attribuiti testi
filosofici come Yajnavalkya Smriti, Yoga
Yajnavalkya in cui sono citati i dialoghi con due allieve Gargi
Vachaknavi e la sua sposa Maitreyi, a riprova del fatto che le donne
dell’epoca avevano accesso agli insegnamenti di ogni genere. Fonti:
-
Brereton, Joel P. (2006). The Composition of the Maitreyī Dialogue in the Brhadāraṇyaka Upaniṣad.
Journal of the American Oriental Society. 126 (3). JSTOR 20064512.
-
Deussen, Paul (2010). Sixty Upanishads of the Veda. Motilal
Banarsidass. ISBN 978-81-208-1468-4.
-
Hino, Shoun (1991). Suresvara's Vartika On Yajnavalkya'S-Maitreyi Dialogue (2nd ed.). Motilal Banarsidass. ISBN
978-81-208-0729-7.
[5] Adiśaṅkara
detto anche Saṅkara, Śaṅkarācārya, Śaṃkara, o, nell'adattamento anglosassone, Shankara, è considerato il più grande teologo
e filosofo
indiano.
Vissuto secondo alcuni tra il VII e l'VIII secolo secondo
recenti ricerche tra il III e il II secolo a.C., ebbe una profonda influenza
nello sviluppo dell'induismo attraverso la sua teologia non
dualistica. Durante la sua vita si dedicò anche alla redazione di
commentari sulle Upaniṣad vediche, sul Brahmasūtra e
sulla Bhagavadgītā. Ha difeso la grandezza e
l'importanza delle sacre scritture induiste,
le Śruti,
ossia la letteratura vedica, ridando nuova linfa all'induismo nel momento in cui
il buddhismo e
il Jainismo stavano
diffondendo le proprie dottrine, da lui considerate eterodosse. Fonti:
-
David N. Lorenzen, Śaṅkara in "Encyclopedia of Religion", vol. 12.
NY, Macmillan, 2005, pp. 8104 e sgg.
-
Hinduismo (a
cura di Giovanni Filoramo), Bari, Laterza, 2002.
-
Alberto
Pelissero, Filosofie classiche dell'India.
Brescia, Morcelliana, 2014, pp. 300 e sgg.
-
Gianluca Magi, Śaṅkara
in "Enciclopedia filosofica",
vol. 10, Milano, Bompiani, 2006, pp. 10050 e sgg.
-
Natalia Isayeva, Shankara
and Indian Philosophy. New York, State University of New York Press, 1993.
[6] Pare addirittura che sia morto per le
conseguenza di un duello di magia con una maestra tantrica che gli avrebbe
procurato una fistola anale incurabile.
[7] Fonti:
-
Madhava-Vidyaranya, Sankaradigvijaya.
-
Anantanandagiri,
Sankaravijaya.
-
Nilakantha,
Sankaramandarasaurabha.
-
David Gordon White, Sinister Yogis (I, 27) University of Chicago Press, 2009.
[8] Fonti:
-
John Grimes, Sureśvara (in Robert L.
Arrington [ed.]. A Companion to the
Philosophers. Oxford: Blackwell, 2001. ISBN 0-631-22967-1)
-
King, Richard (2002), Orientalism and Religion: Post-Colonial Theory, India and "The
Mystic East", Routledge
-
Kuppuswami Sastri, S. (1984), Brahmasiddhi, by Maṇḍanamiśra, with
commentary by Śankhapāṇī. 2nd ed., Delhi, India: Sri Satguru Publications
-
Sarvepalli Radhakrishnan, et al. [ed], History of Philosophy Eastern and Western:
Volume One (George Allen & Unwin, 1952)
-
Roodurmun, Pulasth Soobah (2002), Bhāmatī and Vivaraṇa Schools of Advaita
Vedānta: A Critical Approach, Delhi: Motilal Banarsidass Publishers Private
Limited
-
Vidyaranya, Madhava (1996), Sankara Digvijaya: The Traditional Life of
Sri Sankaracharya: Translated by Swami Tapasyananda, Chennai: Sri
Ramakrishna Math
[9]
Storie simili sono raccontate a proposito di altri maestri realizzati, come Matsyendranath
e Vasiṣṭha. Probabilmente le donne che insegnano a Śaṅkara le pratiche
erotiche sono Devadāsī, le sacerdotesse hindu maestre di danza e di
“Arti dell’Amore”. Bharati non fa una richiesta bizzarra, ma mette in evidenza
un punto che all’epoca era fondamentale: per dirsi completo uno yogin doveva
essere anche un maestro di tecniche sessuali, e solo le donne iniziate, come le
Devadāsī – considerate incarnazioni terrene della Dea- potevano
insegnare agli uomini la via della dissoluzione dell’ego attraverso il piacere.
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